sabato 19 dicembre 2009

Dialogo della Natura e di un Islandese (adattamento)

Moai - Isola di Pasqua
Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, superato l'equatore, vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, simile a quanto già visto nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.
Natura
Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
Islandese
Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
Natura
Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese
La Natura?
Natura
Non altri.
Islandese
Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
Natura
Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
Islandese
Tu dei [devi] sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità [essere effimero e inutile] della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo [minimo] in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine [...]. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno [inverno], l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state [estate], che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo [...] mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. [...] Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria[...]. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere [il filosofo antico cui Leopardi fa riferimento è Lucio Anneo Seneca che nelle Quaestiones Naturales dice "Si vultis, nihil timere, cogitate omnia esse timenda", ossia "se non volete aver paura di niente, pensate che (in caso contrario) dovreste temere tutto"]. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo [...] e la più contraria alla durabilità della stessa vita. [...] In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; [...] e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. [...]
Natura
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle operazioni mie sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Islandese
Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza [con molta insistenza]; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso [schiacciato, dall'eventuale crollo]; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi [lamentandomi] io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli [non spetta a te] di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio [sofferenza] e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato [tormentato] e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
Natura
Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese
Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

[Come ho scritto nel titolo del post questo è un adattamento. Il testo integrale delle Operette morali è reperibile sul sito Biblioteca della letteratura italiana (i testi sono quelli della Letteratura italiana Einaudi) a questo indirizzo: http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t345.pdf]

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