mercoledì 27 gennaio 2010

Giorno della memoria (27 gennaio 2010 – classe III B)

I sommersi e i salvati di Primo Levi
Dal Capitolo V,
Violenza inutile
V. Violenza inutile
Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile: un mondo di immortali [...] non sarebbe concepibile né vivibile, sarebbe più violento del pur violento mondo attuale. Né è inutile, in generale, l’assassinio [...]. Messi da parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un’offesa. Le guerre sono detestabili, sono un pessimo modo di risolvere le controversie tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili: mirano ad uno scopo, magari iniquo o perverso.
Non sono gratuite, non si propongono di infliggere sofferenze; le sofferenze ci sono, sono collettive, strazianti, ingiuste, ma sono un sottoprodotto, un di più. Ora, io credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo.
[...]
In lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo degli abiti e delle scarpe ma dei capelli e di tutti gli altri peli.
Lo stesso si fa, o si faceva, anche all'ingresso in caserma, certo, ma qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità pubblica e collettiva era una condizione ricorrente, tipica e piena di significato. Era anche questa una violenza con qualche radice di necessità (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una visita medica), ma offensiva per la sua inutile ridondanza.
La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una "commissione"decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme.
Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo.
Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento.
La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio: è questo un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin dall'infanzia all'abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più povera delle cucine, ma marginale non era.
Senza cucchiaio, la zuppa quotidiana non poteva essere consumata altrimenti che lappandola come fanno i cani; solo dopo molti giorni di apprendistato si veniva a sapere che nel campo i cucchiai c'erano sì, ma che bisognava comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un cucchiaio costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai nuovi arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più.
Eppure, alla liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini migliaia di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di migliaia di cucchiai dalluminio, d'acciaio o perfino d'argento, che provenivano dal bagaglio dei deportati in arrivo.
[...]
Retaggio di caserma era anche il rito del "rifare il letto". Beninteso, quest'ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove esistevano letti a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile materasso riempito di trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino di crine, e vi dormivano di regola due persone.
I letti dovevano essere rifatti subito dopo la sveglia, simultaneamente in tutta la baracca; bisognava quindi che gli inquilini dei piani bassi si arrangiassero a sistemare coperte e materasso in mezzo ai piedi degli inquilini dei piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, ed intenti allo stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine entro un minuto o due perché subito dopo incominciava la distribuzione del pane.
Erano momenti di frenesia: l'atmosfera si riempiva di polvere fino a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in tutte le lingue, perché il "rifare il letto" era un'operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole ferree. [...]
Chi faceva male il letto, o dimenticava di farlo, veniva punito pubblicamente e con ferocia.
[...]
La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale?
No non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l'innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna.
Era anche un ritorno barbarico, tanto conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti proprio a distinguere gli ebrei dai "barbari", il tatuaggio è vietato dalla legge mosaica (Levitico 19, 28).
A distanza di quarant'anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo.
Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza.

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